Oggi la Corte Suprema di Cassazione ha stabilito una volta per tutte che pubblicare post denigratori su Facebook non integra il reato di stalking.
Il principio che è stato sancito dagli “Ermellini” è che non può essere considerato un reato pubblicare post anche se irridenti o denigratori ma che possono essere letti da chiunque, come quelli pubblicati sulla bacheca di Facebook.
Difatti a differenza dei messaggi privati (sms o WhatsApp) indirizzati direttamente alla vittima, il post pubblicato su di un social network non ha il carattere di invasività e non può essere considerato atto intimidatorio.
Tutto quello che viene pubblicato sulla bacheca di un utente infatti, può essere letto o ignorato da chi vi si imbatte per caso.
La Corte Suprema ha quindi confermato la decisione che era stata presa dalla Corte d’Appello, che in riforma della sentenza di primo grado, avevo assolto l’imputato accusato di stalking, perché aveva molestato due persone, pubblicando messaggi irridenti con un profilo creato ad hoc.
I giudici d’appello avevano evidenziato infatti come i messaggi pubblicati dall’imputato pur avendo un contenuto denigratorio, potevano essere letti da chiunque e non avevano alcun riferimento preciso che potesse ricondurre alle vittime.
Manca quindi in questo caso l’invasività, che è presente invece allorquando i messaggi vengano inviati privatamente tramite sms o WhatsApp.
Affinché si possa dire configurato il reato di stalking è infatti necessario che la condotta posta in essere dall’imputato violi la sfera di privacy e d’intimità della vittima al punto da ingenerare nella stessa un perdurante stato di angoscia e di paura, che può portare anche al cambiamento forzato del proprio stile di vita ed in alcuni casi anche al cambio dell’abitazione.
Non può quindi la semplice pubblicazione di post canzonatori sulla bacheca pubblica di Facebook integrare la condotta di atti persecutori così come previsto dall’art.612 bis C.P.
Dalla Cassazione è arrivata la risposta: pubblicare post denigratori non è stalking.